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Nel
1701, sotto il Pontificato di Clemente XI vi fu una stagione
invernale con poca neve, ma all’improvviso dal 8 al 15 aprile
caddero oltre i 60cm di neve fresca; la presenza di questa neve, la
primavera alle porte, e le massicce piogge successive, fecero
ingrossare particolarmente le acqua del Torrente Missiaga, le quali
impetuose e torbide trasportavano tronchi di tabià, alberi e detriti
d’ogni genere. Nella notte tra l’11 e il 12 aprile, gli abitanti
di, allora, San Michele in Valle, vennero svegliati da un terribile
boato, un enorme frana composta da fango, rocce e alberi, travolse il
paese. La frana era di dimensioni gigantesche, al suo passaggio
inghiottiva e travolgeva tutto, sradicava alberi come fossero di
paglia; in quella terribile notte perirono ben 48 persone tra uomini,
donne e bambini, seppellì e distrusse le case che costeggiavano il
Missiaga. Nella villa di Cugnago distrusse il mulino per follare di
Andrea De Cassan; a Cambrusc (Lantrago) distrusse la sega,
l’abitazione e il tabià di Pietro Corafia e Bartolomeno del
Valentin Monego; poi distrusse il mulino di Pietro Zart, un
proprietario terriero con 4 figli, dei quali ne sopravvisse solo uno;
a Fadès venne inghiottito dalle acqua il mulino di Giovanni Battista
Moneto; in cima della villa raggiunse e distrusse il mulino di Pietro
De Col; nella stessa zona distrusse la fucina di Giovanni Friz, con
casa e tabià di Simeone Zordi Simonetti. Poi colpì la casa di
Matteo e Giacomo Dall’Acqua, devastando tutti i terreni annessi;
proseguì distruggendo un paio di mulini a Torsas; al suo passaggio
“la Boa” creò da Cugnago a Torsas un canale di passaggio del
tutto nuovo, rispetto a dove prima transitavano le acqua del
Missiaga. In poco tempo la furia della frana aveva raggiunto il
Torrente Cordevole, seminando distruzione al suo passaggio. La notte
seguente alla sciagura gli abitanti abbandonarono le loro case e
salirono sui monti, vennero abbandonati anche gli animali nelle
stalle, rimasero fuori casa per 10 giorni. Il giorno 15 aprile i
superstiti, cominciarono la ricerca dei corpi, ma nel fango trovavano
solo teste, gambe e busti, vennero trovati cadaveri sino a Bribano.
La gente non voleva rientrare nelle proprie case, allora intervenne
l’Arcidiacono di Agordo, Don Giovanni Nobile Miari, che esortò la
popolazione a far ritorno alle proprie abitazioni. I tre villaggi
posti sulla destra orografica del Torrente non potevano raggiungere
la Chiesa, per l’immane massa detritica che aveva occupato l’alveo
del Missiaga, allora i valligiani si ingegnarono apponendo delle assi
di legno al di sopra del fango per poter essere presenti alle
funzioni religiose, che dopo una tragedia simile erano per queste
genti estremamente importanti. La notte del 22 aprile alle ore tre,
mentre tutti dormivano, udirono un gran fracasso, la terra tremava e
si sentivano le fragorose acqua del Missiaga. Giunto il mattino, gli
abitanti iniziarono a guardarsi attorno per rendersi conto di cosa
era accaduto la notte prima, la nebbia era fitta e non si vedeva;
venuta l’ora che le campane della chiesa suonassero l’Avemaria
del Mattino, non si udì alcun suono, e la popolazione non si dava
una spiegazione. Quando fu completamente giorno e la nebbia si
dissolse vi fu la terribile ed agghiacciante scoperta: l’acqua
aveva lavorato sull’argine di sinistra facendo si che crollassero,
la Chiesa di San Michele Arcangelo, le due canoniche e la Capellina
di Loreto. Nel disastro perì il Parroco Don Desiderio Taio, la sua
stanza da letto era stata colpita dal Campanile della Chiesa in
crollo, per miracolo si salvarono il Capellano, Don Bartolomeno
Marchioni e la serva del reverendo. All’interno della Chiesa vi era
un antica statua della Madonna in oro massiccio, che non fu mai più
ritrovata.
Biblografia:
Storia dell'Agordino - Tamis